Sull'eutanasia infantile |
1. Per chi ha pratica ospedaliera e una sensibilità non ancora atrofizzata, non c'è reparto più straziante di quello ove sono ricoverati i bambini affetti da tumore. Non tutti, per fortuna, sono destinati a morire, né tutti hanno dolori più o meno intollerabili. Alcuni però sono affetti da malattie incurabili e soffrono le pene dell'inferno. Quanto più sono piccoli tanto più si legge sul loro volto, nei loro sguardi un'espressione di incredulità e di smarrimento. Per comprendere questo vissuto, occorre tenere conto che fino a cinque o sei anni, la psicologia infantile è caratterizzata dall'attribuzione, ai genitori in particolare ma, in senso lato, agli adulti, una sorta di onnipotenza. Tale vissuto è agevolmente spiegabile come una stratagemma della natura, che pone rimedio all'estrema vulnerabilità dell'infante inducendolo a sentire che gli adulti sono in grado di difenderlo da qualunque pericolo e di proteggerlo da qualunque dolore. Si tratta di uno statagemma illusionale, ma non privo di una sua funzionalità psicosomatica. Ogni genitore sa che, quando un infante subisce un trauma non rilevante e urla a perdifiato, basta talvolta carezzare o baciare la parte del corpo traumatizzata e magicamente il dolore si dissolve. L'efficacia simbolica che Lévi-Strauss ha focalizzato come la chiave esplicativa delle pratiche sciamaniche la quale si fonda sul fatto che chi crede al potere magico di qualcun altro può ricavarne sorprendenti vantaggi non spiegabili sul piano della razionalità scientifica, è comunemente presente nel rapporto tra genitori e figli, e, a livello di adulti, produce quello che si definisce l'effetto placebo. Il problema è che tale stratagemma riconosce dei limiti per quanto concerne il dolore. Se questo riconosce una causa organizza persistente, in particolare un tumore invasivo e delle metastasi, l'efficacia simbolica viene meno. In conseguenza di questo, alcuni bambini sperimentano non solo dolori intollerabili, ma uno stato d'animo di sorpresa, di smarrimento e di angoscia allorché prendono atto dell'impotenza dei genitori e dei medici a lenirli. In circostanze del genere, anche lo stato d'animo dei genitori è del tutto particolare. Essi si rendono conto della loro impotenza, vedono il loro bambino straziato senza rimedio e si sentono in colpa come se venissero meno al loro dovere di proteggerlo. Si tratta di circostanze rare, ma non eccezionali. In Olanda, ove dal 2002 l'eutanasia attiva è stata legalizzata per soggetti di età superiore ai dodici anni, è maturata l'idea di affrontare anche queste penose circostanze. E' stato redatto un protocollo in conseguenza del quale l'autorità giudiziaria autorizza una clinica universitaria a porre fine alla vita di bambini, dalla fase neonatale sino a dodici anni, affetti da malattie incurabili e intollerabilmente dolorose. Essendo i bambini incapaci di esprimere una richiesta a riguardo "esplicita, ragionata e ripetuta" come gli adulti, la decisione non è stata delegata ai genitori, che naturalmente devono essere d'accordo, ma ai medici: tre esperti il cui parere deve essere sancito dal nulla osta di un medico indipendente. Più che di una nuova disposizione, si tratta di una regolamentazione di una pratica già in atto in Olanda, ove da anni circa ottocento bambini l'anno vengono aiutati a morire. 2. Era facile prevedere che la legalizzazione dell'eutanasia infantile avrebbe suscitato violente reazioni in tutta Europa. Di fatto queste reazioni non sono venute solo, com'era prevedibile, dalle file dei cattolici e dei protestanti. Anche alcuni laici si sono schierati contro la legge. Le reazioni confessionali sono state, naturalmente, le più dure: qualcuno è giunto a parlare di eugenetica mascherata, e ad evocare il fantasma delle leggi naziste. Il riferimento è ovviamente del tutto improprio. I medici nazisti sopprimevano bambini sani perché ebrei, zingari o affetti da un'anomalia genetica. La legge olandese viceversa riguarda casi limite caratterizzati da malattie. Prevalentemente tumorali, il cui esito si può ritenere certo, le quali producono sofferenze intollerabili per i bambini e, di riflesso, per i genitori. Rimane naturalmente il nodo della sacralità della vita, ma questo valore, come ho già scritto in precedenza, non può essere riconosciuto in un'ottica laica. Cionondimeno, anche alcuni laici hanno espresso un giudizio negativo sulla legge olandese per due motivi. Il primo, ricorrente quando si parla di eutanasia, fa riferimento ai "miracoli" psicosomatici, vale a dire alle guarigioni inaspettate inspiegabili scientificamente che sopravvengono anche in fasi avanzate della malattia tumorale. L'esistenza di questi casi è inconfutabile, ma del tutto eccezionale. La previsione medica sull'exitus si può ritenere probante al 99,999% dei casi. Certo, la legislazione olandese rischia di sopprimere anche un bambino il cui organismo contiene la possibilità del miracolo psicosomatico. Il problema è che tale possibilità non è in alcun modo prevedibile scientificamente, per cui occorre chiedersi se sia moralmente lecito fare soffrire inutilmente la stragrande maggioranza dei bambini affetti da malattie incurabili per concedere ad uno di essi di salvarsi. L'altro motivo fa riferimento alla possibilità di fare ricorso alla terapia antidolore. Da questo punto di vista, il problema è che, nonostante la medicina vanti di aver fatto grossi progressi a riguardo, l'arma elettiva contro i dolori tumorali rimane la morfina e i suoi derivati. Per lenire le sofferenze, però, la morfina deve essere utilizzata senza remore. In rapporto ad un organismo defedato dalla malattia e dalle cure, questo però significa rischiare di agevolare attivamente la morte del paziente: procedere, cioè, sul piano di un'eutanasia mascherata. Occorre riconoscere almeno all'Olanda il coraggio di affrontare i problemi bioetici con un realismo che può essere accusato di essere troppo razionalita. L'accusa rivolta allo Stato olandese di volersi liberare di bambini gravemente ammalati per motivi economici, vale a dire per ridurre le spese dell'assistenza sanitaria, sembra del tutto ingiustificata. Chiunque ha avuto un'esperienza diretta del problema, tranne che non sia accecato da motivi confessionali, giunge alla stessa conclusione. 3. C'è un nodo filosofico che s'intreccia alla questione di cui stiamo discutendo: il significato del dolore. Se si rifiuta l'impostazione confessionale secondo la quale il dolore, in quanto imperscrutabile espressione della volontà divina, va sempre e comunque accettato, assumendo come riferimento la Passione di Gesù, posto il diritto umano di lottare lecitamente contro di esso, il discorso rimane comunque complesso. Da un punto di vista fisiologico, il sistema del dolore è un potente meccanismo di salvaguardia dell'organismo, poiché esso si attiva per segnalare dei pericoli che, altrimenti, potrebbero risultare pericolosi per la sua integrità. Una prova certa di questo è data da una rarissima anomalia di origine genetica caratterizzata dal fatto che il soggetto che ne è affetto non avverte o avverte minimamente il dolore. Diversamente da ciò che si potrebbe pensare, in rapporto all'esperienza comune del dolore come un mero disturbo, un soggetto affetto da tale sindrome vive un'esperienza terribile, sempre sul filo del rasoio del danno grave. Egli può, per esempio, poggiare impunemente la mano su di un ferro sa stiro bollente senza urlare, ma l'ustione è inevitabile. Il dolore dunque segnala un pericolo. Il problema è che l'organizzazione di questo sistema, come di ogni altro sistema maturato nel corso della filogenesi, si fonda su automatismi che hanno un grado minimo di plasticità. Questo grado si ricava dalle esperienze degli yogin che, impegnandosi per decenni in esercizi di controllo della mente sul corpo, possono giungere a esporsi a stimoli dolorosi senza percepire soggettivamente il dolore. Che significa questo automatismo in rapporto alla gente comune? Né più né meno, che il dolore viene esperito e si mantiene anche quando il pericolo che lo produce è tale che contro di esso non c'è alcunché da fare. E' questo il caso di alcuni tumori che, espandendosi, distruggono i tessuti adiacenti stimolando le fibre dolorose, e di metastasi che si insediano in organi (come le vertebre) che sono estremamente ricche di terminazioni dolorifiche. In questi casi, la segnalazione del pericolo si può ritenere ridondante, nel senso che essa si mantiene anche in assenza di una risposta. E si mantiene finché, eventualmente, non sopravviene la morte. Questo significa semplicemente che, nell'ambito dei dolori dovuti a cause organiche, si possono distinguere quelli utili, che pongono il soggetto o i curanti in grado d'identificare la loro causa e di intervenire, e dolori inutili, i quali, non comportando alcun intervento terapeuticamente efficace, corrispondono solo alla "cecità" del sistema del dolore. E' fuori di dubbio che, nel nostro mondo, la soglia soggettiva e culturale del dolore si stia abbassando. C'è una diffusa intolleranza nei confronti del dolore, come se esso fosse meramente un attentato alla felicità individuale e al benessere psicofisico. Se questo è vero, non è meno vero che i dolori inutili rappresentano una sorta di zoccolo duro della condizione umana. Il problema è come confrontarsi individualmente e collettivamente con essi. Attribuire tali dolori ad un'imperscrutabile volontà divina, porta comunque alla conclusione che la divinità in questione ha una componente sadica. Quale significato provvidenziale può mai avere l'atroce dolore di un bambino di tre-quattro anni affetto da metastasi ossee? E' noto che la sofferenza dei bambini è, da sempre, uno dei motivi che hanno indotto persone credenti ma riflessive a rinunciare alla fede. Attribuire i dolori inutili agli automatismi dell'organismo umano, che hanno tutti la medesima caratteristica di essere funzionali sino ad un limite al di là del quale sono disfunzionali, significa immediatamente riconoscere il diritto dell'uomo di intervenire di essi in qualunque modo. Se tale intervento fosse obbligatorio per tutti, le proteste dei credenti sarebbero comprensibili. Di fatto nulla vieta loro di affrontare qualunque dolore che si produca nel corso della loro vita, compresi quelli terribili di origine tumorale, con la sopportazione e la consapevolezza di imitare Gesù. Imporre tale sopportazione a coloro che non hanno una fede è, invece, un arbitrio intollerabile, perché significa obbligare delle persone a vivere un'esperienza priva di significato e sterile. La legge olandese s'ispira al principio di ridurre o eliminare i sacrifici inutili. In questo senso essa può essere assunta come una legge umanitaristica, che tiene conto dei limiti e delle debolezze umane e non pretende che tutti gli esseri umani siano santi o eroi. Si obietterà che decidere di dare la morte ad un bambino che non è in grado di esprimere la sua volontà deliberata è un arbitrio. Ma non sono forse espressione di una volontà non esplicitabile le sue urla strazianti e le sue espressioni mimiche di sofferenza intollerabile? I credenti che accettano la sofferenza dei loro figli in nome dell'imperscrutabile volontà divina sono sicuramente in buona fede. Tra l'altro, puntano quasi tutti sul miracolo. Essi non sanno, forse, di comportarsi come Isacco pronto a sacrificare Giacobbe sull'altare della fede. |